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Quando a Taranto si compravano gli schiavi... - Parte I

  • orizzontecultura2
  • 11 giu 2020
  • Tempo di lettura: 3 min

Di importanza decisiva nel periodo delle grandi guerre di conquista, la schiavitù, già prima della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, non aveva più un ruolo centrale nella vita economica del mondo antico. A determinarne la decadenza indubbiamente contribuirono le idee morali dello stoicismo e del Cristianesimo e, dopo il I secolo d.C., la profonda trasformazione dell’economia agraria, dai latifondi coltivati da stuoli di schiavi, al frazionamento in poderi affidati a famiglie di coloni.

La schiavitù, anche dopo il Mille, sopravvive per i servizi domestici e per quelli di guardia del corpo, a sovrani o a potenti signori, fino alla seconda metà del Duecento, periodo in cui c’è un rifiorire del commercio degli schiavi, in maggioranza donne, per l’aumento della ricchezza e del lusso in Occidente e per l’intensificarsi pauroso, di pari passo con lo sviluppo del commercio marittimo, della pirateria.


L’atteggiamento della Chiesa Cattolica rispetto al problema della schiavitù è stato nei secoli ambiguo. Papa Gregorio I incoraggiava le manomissioni (nel diritto romano l'atto con cui il proprietario libera un servo dalla schiavitù) di quegli uomini “quos ab initio natura liberosprotulit et iusgentiumiugosubstitulitservitutis”, anche se egli stesso fu costretto in qualche occasione a ordinare l’acquisto di “mancipia barbaricina”, limitando la proibizione ai soli battezzati. Alla base una necessità sociale: l’esigenza di forza lavoro, quindi di schiavi, importante ogni qualvolta epidemie, guerre o catastrofi naturali toglievano braccia all’Occidente. E così, in ragione di tali esigenze, i signori delle città e i grandi proprietari terrieri acquistavano uomini e donne per adibirli ai servizi domestici o ai lavori agricoli.

I notabili tarantini non furono da meno, come è testimoniato in alcuni documenti conservati nell’Archivio di Stato di Taranto che per tutto il XVII secolo tramandano la memoria di tale commercio. Il Castellano di Taranto Giuseppe de Salas per prestigio, per capriccio o semplicemente per status, nel 1689 chiede al suo omologo di Gallipoli di mandargli una schiava che abbia le caratteristiche richieste. A ritirare la merce viene inviato un sottoposto del cattolicissimo comandante spagnolo che accompagna a Taranto “Salè, bianca, gravida, di giusta statura, capelli castagni, d’anni venti cinque in circa con una cicatrice alla mascella destra”, dopo averla comprata per trenta zecchini russi dal capitano di una tartana messinese che commercia in schiave turche. Durante il viaggio Salè partorisce un bimbo al quale viene imposto il nome di Giovanni Battista Giuseppe ma, giunti a destinazione e non essendo di gradimento del castellano, madre e figlio vengono rivenduti, per lo stesso prezzo, al medico tarantino Francesco Antonio Gennarini.

Nello stesso periodo il marchese spagnolo Francesco de Benavides Davila, rappresentante di Sua Maestà Cattolica a Taranto, autorizza il mercante genovese Giovanni Battista Maxio, naufragato presso l’isola di San Pietro, a vendere sulla piazza di Taranto 16 schiavi, tra uomini, donne e bambini, che lo schiavista trasportava da Fiume a Cagliari.


Tanti accorrono in Piazza Maggiore a comprare da questo mercante che offre schiavi a prezzi di realizzo, così ad Angeletta de Boscita viene venduta per 80 ducati Ira “di anni 18, capelli negri, di giusta statura”. Domenico Marini si aggiudica Repa, bianca di 22 anni. Ludovico lo Iucco porta a casa Giulia per 50 ducati. Tomaso Algarati, di passaggio a Taranto acquista Alì di 12 anni per 40 ducati. Ancora meglio, il medico Domenico Cataldo d’Amati per 30 ducati ottiene Salè “uno schiavotto brunetto d’anni otto”. Il barone Carlo Ungaro spende volentieri 50 ducati per portarsi a palazzo Amet di appena sei anni. A Domenico Antonio Calvo va un’intera famiglia per soli 60 ducati, madre e due figli: Miase e Memet “una d’anni due in circa e l’altro alla fascia nato in questa città”.

Qualcuno riusciva anche a fuggire, Amur questo il nome dello schiavo “capelli negri et cum una nata dentro uno occhio” per due mesi riesce a far perdere le sue tacce, poi salta fuori che lo schiavo è in casa del napoletano Aniello Sarno, ex regio giudice di Taranto, il quale a scanso di equivoci e per evitare problemi con la legge si impegna a riconsegnare “l'ospite” al legittimo proprietario.


CONTINUA……


IMMAGINI:

  • Archivio di Stato di Taranto, notaio Carosio Giovanni Maria, 1689

  • Mappa che dimostra la Provincia d’Otranto, sua riviera marittima, torri e posti di guardia (da Il Castello di Taranto immagine e progetto, Galatina 1992)

  • Disegno veneziano del 1686

  • Particolare della Pala di S.Lucia - Lorenzo Lotto



 
 
 

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