Quando a Taranto si facevano le “scamisciate” in onore di S. Cataldo
- orizzontecultura2
- 9 mag 2020
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Quando un Santo, sebbene di origini irlandesi e approdato fortunosamente sulle rive dello Ionio, oggetto di devozione di tutti i suoi abitanti, fa parlare di sé lungo il corso di tanti secoli, è inevitabile che la storia di una città sia strettamente legata al suo Santo benedicente.
Ciò che proponiamo all'attenzione di chi legge è quella parte di storia relativa alle solenni feste che si tenevano in onore del Santo, all'interazione dei due poteri, quello temporale e quello spirituale, per la riuscita delle manifestazioni, al sentire profondamente religioso dei tarantini, al loro concorrere spontaneamente in soccorso della chiesa cattedrale nei momenti di difficoltà e, in una parola, tutta quella documentazione che fa da corollario, spesso poco nota, alla agiografia, alla storia ufficiale e alla tradizione orale pura e semplice.
Fino alla fine del secolo scorso, le feste documentate erano due: la prima l'8 marzo, in ricordo della morte del Santo, era probabilmente solo religiosa, celebrata con processione all'interno della chiesa metropolitana, l'intervento di "musici e tiramantici" e di pochi fuochi artificiali; la seconda, sicuramente più fastosa, ricordava il rinvenimento del Corpo del Santo e la sua traslazione.

La vigilia della festa, preceduta da una novena durante la quale venivano sparati “cento tuoni e cento fologi... sera per sera sopra il campanile", nella navata centrale della Chiesa cattedrale, veniva collocata la statua d'argento del Santo posta sotto una grande "machina" di legno carica di candele, a sostegno e abbellimento del simulacro. Col consenso dell'Arcivescovo e con tutte le solennità del caso, la mattina del 10 maggio, seconda giornata di festa, la statua lasciava la Cattedrale per essere portata in processione, affidata al sindaco della città, insieme alle reliquie.
Ma vediamo come la città viveva l'avvenimento.
Famosissima era la fiera di S. Cataldo che veniva organizzata ogni anno “dietro la chiesa cattedrale di questa città, in dove vi era gran concorso di forastieri a vendere varii generi...” orefici da Lecce, figuli da Grottaglie, felpaioli da Taranto in un turbinio di colori e suoni. La festa, e quindi anche la fiera, col passare degli anni divennero sempre più importanti e si estesero anche nella vicina Piazza Maggiore, l’attuale Piazza Fontana, tanto che nel 1895 il Consiglio comunale deliberò di devolvere a vantaggio della festa tutte le entrate derivanti dal pagamento della tassa per l'occupazione del suolo pubblico di quell'anno. La domanda nasceva “dall'intento di attirare con la festa un maggior numero di forestieri a Taranto, procurando così vantaggi a tutte le classi dei cittadini, specialmente dei piccoli commercianti”.
Il popolo, però, non era semplice variopinta cornice delle celebrazioni in onore del Santo Patrono, ma partecipava attivamente visto che "...per far comparire detta festa più magnifica e pomposa e promuovere maggior divozione così à cittadini che à forestieri, che in gran quantità ci concorrono, si ha sempre ab antiquo fatta la comparsa di finte milizie d'infanteria e cavalleria...” .
Erano, queste, finte truppe che scortavano la processione del Santo e che durante i due giorni di festa marciavano per le vie della città con fucili scarichi, tamburi e bandiere.
Protagoniste di questa antichissima usanza erano le categorie più vessate, più devote e più prodighe della città i “pescatori di lancia, volgarmente chiamati infoscinatori", i “sardellari" e i “cozzaroli o siano palamibari"
Le bandiere, tre per l'esattezza, poi ripiegate con cura per l'anno successivo, venivano gelosamente custodite da Alessio Di Blasi, “capo dè pescatori”.
E proprio a causa di questa antichissima usanza l’Arcivescovo Capecelatro dovette subire nell’anno 1788 un processo davanti ad un tribunale di guerra, con l’accusa di aver consentito manifestazioni offensive nei confronti dell’Armata del Re e di non aver impedito la scamiciata precedentemente vietata. Il processo celebrato nella primavera di quell’anno, si risolse con una completa assoluzione del prelato. Decisive furono le testimonianze di numerosi cittadini i quali attestarono di quanto consuete e lecite fossero invece questi riti praticati da molto tempo. L’usanza era infatti diffusa in
tutto il Regno e anche nella città di Lecce dove alcuni venditori tarantini di cozze nere e “salume” che si erano recati in quella città per partecipare alla annuale festa in onore di S. Oronzo videro “la coccagna nella publica piazza, con carro trionfale, musica ed un battaglione di cavalleria ben armato ed ordinato che girò per due giorni per le strade di detta città e la sera poi detto battaglione fece la sua schamisciata colle torce di cera accese per sino le ore sei della notte”.
L’amore del popolo tarantino nei confronti di S. Cataldo non si limitava comunque a queste forme di partecipazione nei due giorni di festeggiamenti, ma si evidenziava in tante opere di culto puntualmente registrate dai notai cittadini e dai tesorieri della Venerabile Cappella di S. Cataldo, offerte di oro e di argento, elemosine, lasciti, messe.
E così, da un lato la devozione generale e la pietas popolare contribuivano ad accrescere la devozione del Santo e l’importanza della festa a lui dedicata, dall'altro questa partecipazione e la munificenza di molti determinavano un'assistenza di ritorno che ricadeva sulla stessa comunità cittadina. Il vero miracolo di S. Cataldo è essenzialmente questo: aver creato in un popolo la solidarietà che nasceva dal basso e che si esprimeva in varie forme. L’essere cives in un contesto in cui la carità era intesa nella più nobile delle sue accezioni, stretti intorno ad un Santo che era il Santo di tutti.

Immagini tratte da Il Castello di Taranto. Immagine e progetto, Congedo, Galatina 1992
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