Tessere di storia: il Matrimonio - Parte II
- orizzontecultura2
- 3 giu 2020
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In prossimità delle nozze le famiglie si riunivano per decidere nei minimi particolari ciò che gli sposi avrebbero portato in dote. In un’età caratterizzata dall’estrema povertà e nella quale ci si sposava, in genere, assai giovani e senza avere potuto acquisire con le proprie forze adeguati beni patrimoniali, l’istituto della dote e tutti gli altri a esso riconducibili, aveva una precisa funzione di salvaguardia e di protezione del nascente nucleo familiare, in quanto consentiva una base economica di partenza ritenuta, secondo le diverse usanze, adeguata ai bisogni iniziali della famiglia. Anche tra le classi meno abbienti le nozze rappresentavano, essenzialmente, un mezzo per aggiungere nuove braccia da lavoro a quelle preesistenti, necessarie alla coltivazione dei campi.
Questa storia mai scritta ha lasciato una traccia importante nella ricca documentazione relativa alle carte dotali conservata negli Archivi di Stato: dichiarazioni rese davanti al notaio dai genitori o dotanti della sposa prima del matrimonio. Tali atti venivano stipulati tanto dalle famiglie nobili o della borghesia quanto da quelle più modeste, a riprova della diffusione di tale consuetudine in vari strati della popolazione. Anzi in molti casi la dote era l’unica ricchezza trasmessa dalla famiglia e più era importante più dava lustro e garantiva durata e investimento.
Archivio di Stato di Taranto, notaio Catapano G.A, anno 1700, Carte dotali
Il costume, attestato sin dal periodo normanno, era così radicato nella nostra popolazione che anche per le ragazze povere erano previste delle doti, chiamate “maritaggi”, elargite da benefattori e sorteggiate tra le meno abbienti. Allo stesso modo per le ragazze proiette, cioè abbandonate alla nascita che giunte all’età di sette, otto anni – ma anche tre, quattro – venivano date in locazione a famiglie benestanti che si impegnavano a mantenere ed allevare le ragazze fino al compimento dei venticinque anni quando veniva loro corrisposta una piccola somma, una lettiera “libre sei di rama lavorata e panni a tre”, affinché potessero sposarsi con un minimo di dote.
Tutte le unità costituenti il corredo dovevano essere in numero pari. Il corredo, pur rispettando la tradizione, poteva variare nel numero dei capi secondo le possibilità economiche della famiglia e secondo la tradizione del luogo (il corredo più povero non poteva essere inferiore di panni a tre, cioè tre esemplari per ogni capo di biancheria, che per le famiglie facoltose arrivava fino ai 24 esemplari).
La regolamentazione della dote varia nel tempo anche in rapporto alle consuetudini locali; queste per quanto riguarda la città di Taranto si richiamano prevalentemente al diritto romano e qualche rara volta a quello longobardo nella presenza, ad esempio del Mundualdo, a tutela e garanzia della donna.
Davanti al notaio si presentano le parti in causa: i dotanti della sposa e il futuro sposo, il quale riceve la dote e ne diventa il depositario, impegnandosi ad amministrarla e assumendo il diritto di goderne i frutti.
Dopo l’accenno alla sacerdotale benedizione e la promessa di contrarre solenne matrimonio, secondo il rito della Santa Romana Chiesa e Sacro Consiglio di Trento, viene descritta la dote che comprende solitamente, oltre al corredo e alla suppellettile domestica, anche immobili e somme di denaro.
Il corredo costituiva comunque la parte sempre presente, spesso nelle doti importanti veniva stimato da persone conosciute o da esperti indicando per ogni capo o oggetto l’esatto valore in oncie o ducati, cosa questa necessaria per la restituzione in caso di scioglimento del matrimonio o in caso di morte della moglie senza figli; cosa che avveniva anche in caso di figli morti in tenera età.
Gli inventari delle tavole nuziali, con le dovute differenze lessicali dovute all’area geografica e al periodo storico considerati, seguono una traccia pressocchè uguale in tutti gli atti. Non è difficile comunque dalla lettura di tali documenti risalire al livello sociale di queste famiglie, anche quando non viene fatto esplicito riferimento alla classe di appartenenza.

Viene descritto il letto matrimoniale (travacca o lettiera) formato da due o più tavole di legno di noce o di abete poggiate su cavalletti di ferro (tristelli), nelle doti più ricche il letto è sormontato da un padiglione con tenda, reggitenda e giroletto (sproviero, cappilletto e avantiletto); quasi sempre presente oltre al matersso pieno di lana, anche quello pieno di paglia, miglio, foglie di granturco (saccone).
Del corredo faceva parte la biancheria per la casa: lenzuoli, cuscini (coscini, origlieri) con i copricuscini (investitore o mezze federe); tovaglie per la tavola (misali) con i tovaglioli (mandiloni, salvietti); asciugamani (tovaglie di faccia, nettafaccia, stusciafaccia).
La biancheria personale della sposa, peraltro molto scarsa, prevede soltanto camicie e grembiali (sinali, avantisini), a riprova dei confini domestici nei quali la donna si esprimeva. Negli elenchi più recenti compaiono brache (calzoni), sottovesti, fazzoletti per il collo (mezze scolle), calzetti ecc.

Vario era l’uso dei tessuti indicati genericamente nei primi documenti del Quattrocento e del Cinquecento (bambagia, seta, lino), poi sempre più specificate nella consistenza e nella qualità (percalla, panniciello, taffittà, cataluffa, sgotto, armesino, musolino battistato), il luogo di provenienza di alcuni tessuti utilizzati per la confezione di capi di abbigliamento (Fiandre, Vagram, Cambrais, Orleans). Molto raro in generale è trovare la descrizione dei ricami, delle applicazioni di merletto e dei colori utilizzati per il corredo, ad impreziosire lenzuola, camicie e tovaglie troviamo spesso il pizzo (pizzillo) con lavorazioni a ferretto, a telaio o a mano.
Fra i punti più semplici c’è quello tagliato (una altra cammisa lavorata di contagliato ad onda), poi ci sono i festoni (un altre sonale lavorato con li mergoliatorno), il punto Venezia, il reticello (tre toccati lavorati uno a punto d’oro e l’altri a rigitella), il punto scritto (una cammisa lavorata a punto scritto), il punto (a rosa), il pipirello (quattro tovaglie fiandanese a pipiarelli) ecc.
Altro dato importante nella confezione dei capi di corredo era il colore che nelle carte dotali del XV e XVI secolo è importante e prezioso, molto di moda il nero e il rosso (nigro et rubro) con decorazioni in oro, argento e perle (facziolo uno tarantinustolaboratocum seta nigra rubra et cum auro et perlisparvis); nei secoli successivi si afferma il turchino, il cremisi, ma anche tinte più delicate come il color carne (una investitora di seta incarnatiglia) o più particolari (tre investitore lavorate di seta scanciacolori).
Dai pochi elementi forniti nelle carte nuziali è difficile individuare riferimenti alla moda del tempo in cui tali atti furono prodotti; l’abbigliamento femminile è pressocchè ridotto a qualche “gonnella di friso russo con pizzilli di seta cruda...un guarnaccione di dobletto...un giuppone di raso fiorito...un abito di crò rosato a quadriglii” completavano “una mantiglia di crò nera foderata con marsiglina color viola...uno sciallo di casmiro rosso con la bordura fiorata”.
Ben descritti e soprattutto puntualmente stimati sono invece i gioielli; non c’è oro nei monili di fattura quattrocentesca di Luisa Muscettola, per ornarsi la damigella indossa (corigia una de argento...); sfarzoso lo scrigno delle vergini in capillis del Sei e Settecento (una verghetta d’oro con granatelleatorno et una fede di smiraldo...una cannacca di granatelle...una catena di coralli rossi...).
I secoli successivi non danno molta importanza alla descrizione dei gioielli ma al loro valore (oro lavorato in più pezzi del valore di ducati quaranta...), nel secolo scorso (vari adorni muliebri in oro consistenti in orecchini ed anelli del peso totale di venti grammi...).

L’arredo della casa, quando è descritto, si limita nei documenti più antichi alla descrizione del letto matrimoniale, della cassa in cui si ripone il corredo davanti al letto e di qualche utensile da cucina (caldara, cucumo, fersora, tripede...mattara e spinatora...riscaldaletto, bracera, sicchio...); ma è solo nel XIX secolo che gli elenchi si arricchiscono con la descrizione di veri e propri arredi (...due comò con marmi...una pariglia di consoli anche con marmi...una toletta completa di noce...).
Indice dello stato sociale della famiglia è in alcuni casi la presenza di quadri il cui soggetto, comunque, è sempre di natura religiosa.

L’assenza pressocchè totale di libri, pur essendo essi un bene valutabile – nei testamenti, negli inventari di beni, nelle donazioni, rappresentano una parte cospicua – è da attribuire al tipo di atto che si sta stipulando che ha per oggetto la donna.
La sua educazione, indipendentemente dal ceto sociale, è mirata a farne una buona moglie, madre e angelo del focolare; il suo “regno” è la casa, se il suo tempo dell’infanzia e dell’adolescenza è scandito dal ritmo della preparazione del corredo, ora, dopo il matrimonio sarà occupato dalla maternità, dalla educazione dei figli, dal governo della casa e dalla cura dello spirito; e così nelle carte dotali troviamo traccia di questa quotidianità, tutto il necessario per tessere (cordaturo, rizzaturo e pettini) tutto il necessario per la cucina (mattara e spinatora) e infine ciò che serve per la salvezza dell’anima (paternostri di corallo, corone di acciavaccia con medaglie e crocifissi).
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