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Una finestra sulla storia di Taranto - parte II

  • orizzontecultura2
  • 22 apr 2020
  • Tempo di lettura: 2 min


...Il pretesto fu dato il 23 luglio 1647 dalla distribuzione di grano marcio alla popolazione da parte del sindaco. Nel tumulto che ne seguì, il popolo, esasperato, bloccò le porte della città e, armatosi di schioppi e archibugi, appiccò il fuoco a diverse abitazioni di aristocratici e si diede all’inseguimento dei nobili che si asserragliarono nella chiesa di S. Cataldo.

Sedato il tumulto, alla presenza del Governatore si riunì il primo parlamento cittadino che nominò un nuovo sindaco e decise di elaborare un nuovo ordinamento amministrativo, nel quale si prescriveva che nessun amministratore pubblico potesse intervenire nelle assise cittadine per il partito della carne, del grano, dell’olio o di altre merci avendo interessi personali, sotto pena della confisca di detti prodotti e di multe onerose in beneficio della città. Così come si stabiliva che anche i nobili dovevano pagare la gabella del pane, proibendo tassativamente ogni forma di accordo tra questi e i gabelloti a danno della popolazione.

Quel che risulta evidente nella storia dell’alimentazione tarantina, è lo stridente contrasto tra l’alimentazione dei ricchi e quella dei poveri, a tutto svantaggio ovviamente di questi ultimi. Nel Settecento l’alimentazione base di cinque sesti degli abitanti di Taranto era costituita da verdura spontanea raccolta in campagna, un po’ di pane, spesso cozze nere che il Mar Piccolo offriva a bassissimo costo, e legumi.



Fave e fogghie, per esempio, cioè purè di fave secche e cicuredde di campagna, mangiate poi ncapriáte, cioè rese a purè, con pezzi di pane. Minestra di cui anche Pitagora pare fosse ghiotto tanto da raccomandare la cottura delle fogghie in acqua piovana. Il cibo era consumato dai braccianti agricoli sempre in campagna, sul luogo di lavoro, in un unico piatto. A volte un po’ di formaggio e un po’ di vino accompagnavano il pranzo, sempre presente u’ vummile, recipiente per mantenere fresca l’acqua.

Altra pietanza semplice ma gustosa dei nostri concittadini era la cialedda, più conosciuta come l’acquasale, la cui ricetta risale alla caponata di origine catalana e consiste nel pane di grano duro rammollito in acqua e poi condito con pomodoro, olio, sale e origano e a volte con cipolla cruda.

Caratteristiche delle nostre contrade, ma di tutta la Puglia, erano le friselle, ciambelle biscottate importate probabilmente dai primi navigatori greci e utilizzate per la loro lunga conservazione dai crociati e dai pellegrini nei lunghi viaggi per raggiungere la Terra Santa. La frisella, infatti, era un pane da viaggio: da qui l’uso di bagnarla in acqua di mare da parte dei pescatori che la usavano come pane per le zuppe di pesce e cozze, oppure semplicemente condite col solo pomodoro fresco. La forma risponde ad esigenze di trasporto e conservazione. Le friselle, infatti, venivano infilate in una cordicella a formare una collana da appendere per conservarle e per preservarle dai topi. Taranto produceva ed esportava il biscotto, le gallette. Porto sicuro del Mediterraneo, diventava scalo obbligato di tutte le galee della flotta napoletana che usavano rifornirsi in città di pane fresco e biscotto per il vitto dei marinai imbarcati sulle galee, a volte solo approvvigionandosi di grano, a volte ordinandone la confezione e la cottura.


CONTINUA...

 
 
 

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