Una finestra sulla storia di Taranto - Parte V
- orizzontecultura2
- 13 mag 2020
- Tempo di lettura: 2 min

A partire dal XVI secolo si assiste ad un progressivo impoverimento del regime alimentare delle classi meno abbienti del sud d’Italia, con una dieta basata sul consumo di verdura, cereali minori , pesce e carne salati, perché quelli freschi erano riservati ai ceti benestanti.
Tra i vari sistemi di salamoia, nei documenti viene ricordato il garus, salsa già conosciuta dagli antichi greci, derivata dalla fermentazione delle interiora di alcuni pesci azzurri, secondo una antica ricetta “se pigliarà vino bono et bianco, sale et oglio, ponendonce pepe, zinzibaro, garofali, zaffarano, grana paradisi, galanga et cinamonia et è perfectissimo”.

Nello stesso periodo si diffonde la pasta industriale, grazie all’introduzione del torchio meccanico, che diventerà nell’Ottocento la base dell’alimentazione meridionale accanto o in sostituzione del pane.
Per Taranto il consumo di pasta è testimoniato già agli inizi del 1500: soprattutto vermicelli che “son de bon nutrimento” e “ceppule o lagane e maccheroni grossi” che vengono considerati nocivi quando vengono conditi con “formagio, overo cum altra sorte de lacticinio o vachino o pecorino”, lo sono meno se vengono conditi con il miele.
Il rispetto per il cibo è stato una costante nell’alimentazione almeno fino agli anni ’50 del secolo scorso. I nostri nonni e i nostri genitori che hanno vissuto l’esperienza devastante delle due guerre mondiali, non amavano buttare il cibo: si facevano il segno della croce o baciavano il pane raffermo quando, se proprio non era possibile riutilizzarlo, si era costretti a buttarlo.
L’imperativo categorico di risparmiare ha portato alla elaborazione di tanti manuali di economia domestica che insegnavano ricette per riutilizzare gli avanzi; famosissimi “L’arte di utilizzare gli avanzi” del poeta Olindo Guerrini, uscito postumo nel 1918 e soprattutto “Le ricette per tempi eccezionali” di Amalia Moretti Foggia, la famosa Petronilla, donna straordinaria, medico pediatra che dal 1928 dispensò consigli culinari dalle colonne de La Domenica del Corriere. Durante la seconda guerra mondiale, anche nella sua rubrica radiofonica aiutava le massaie a riutilizzare tutto quello che rimaneva di non utilizzato non solo alla fine di un pranzo, ma anche dopo la preparazione di un piatto: le interiora degli animali, le bucce di patata, la pasta, i torsoli delle verze.

«Petronilla suggerisce nuove tecniche e accorgimenti che consentano di mettere in tavola gli stessi piatti di prima ma senza gli stessi ingredienti ormai introvabili. E’ un vero e proprio inganno al palato, che permette, con qualche virtuosismo, di servire una crème caramel senza latte né uova, una maionese senza olio, una cioccolata in tazza senza cioccolata…», come ricorda Miriam Mafai, in “Pane nero”, il volume che tratteggia mirabilmente questo interessante personaggio.
Il cooking with scraps, oggi, è niente altro che il recupero delle indicazioni di Petronilla, una cucina sostenibile e a basso impatto ambientale, per educarci ad una maggiore consapevolezza dei nessi causali tra il nostro stile di vita, le scelte di consumo alimentare e l’ambiente che ci circonda e, come sempre, se vogliamo essere artefici del nostro presente e del nostro futuro, dobbiamo dare il giusto valore al cibo.
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